lunedì 18 novembre 2013

SULLA DESACRALIZZAZIONE DEL MONDO di Roberto Mussapi


Pubblichiamo la trascrizione dell'intervento di Roberto Mussapi in occasione della presentazione del libro "L'atto la storia" di G. Ricci (Milano, Centro San Fedele, 7.11.13)



Questo libro mi ha subito colpito. Per me rappresenta un punto di riflessione importantissimo su una questione di fondo, su cui lavoro, opero e combatto come poeta da decenni: riguarda lo status della poesia e dell’arte nell’occidente e specificamente in Italia. Il problema è quello della desacralizzazione del mondo avvenuta in occidente, con tutto ciò che comporta. Per esempio la nascita esponenziale di avanguardie nichiliste, un panorama di desolazione e nello stesso tempo di sperimentalismo linguistico fine a se stesso. Questo è il primo motivo di attenzione forte che mi spinge a questo libro che parla, sia ben chiaro, di due papi. Volevo subito mettere in luce che non sono esperto di papi, non sono un vaticanista, sono un tifoso di Wojtyla, un papa che era un grande nuotatore, un grande drammaturgo e un grande poeta, tre qualità olimpiche. 

Il libro parla di due papi ma compie una riflessione fondamentale sulla crisi del novecento con le sue ripercussioni sul nuovo secolo e sul nuovo millennio. Attraverso questa vicenda drammatica di due papi in realtà l’autore fa una grande riflessione sullo svuotamento del novecento e sulla necessità di una rigenerazione. Il punto di partenza dell’autore è laico e pertanto quando parla di questi argomenti non pretende delle conoscenze specifiche e non cerca delle simpatie specifiche; è un uomo che riflette sulla situazione culturale del nostro tempo. Questo è un libro importante. Ricci ha scritto altri libri importanti ma erano più legati alla psicanalisi o a temi che non rientravano nelle mie competenze.  Questo invece è un libro da cui mi sento chiamato in causa. Perché il problema di fondo del novecento è una desacralizzazione del mondo che conduce poi, attraverso una genesi continua di piccoli sperimentalismi, a un depauperamento di ogni valore di potenza dell’espressione umana, non solo di quella artistica  ma in generale viene privato di senso ogni atteggiamento creativo, per esempio la sacralità del lavoro dell’artigiano. Il senso creativo scompare ad esempio nella cultura televisiva, nella selezione televisiva degli autori e degli argomenti, ma simultaneamente scompare anche nella vita quotidiana. 


Ricci scrive questo lavoro di getto, lo dice nell’introduzione. E’ psicanalista ma è uno psicanalista laico nel senso che non ritiene che tutto il mondo debba essere letto esclusivamente attraverso la psicanalisi. Io sono in polemica, da sempre, contro l’egemonia psicanalitica nella lettura assolutista dell’arte, della pittura, eccetera; soprattuto sono abbastanza informato del fatto che Platone, Shakespeare e i tragici greci la sapessero abbastanza lunga sul sogno e sull’inconscio. Sono invece ovviamente favorevole a una concezione e a una pratica della psicanalisi equilibrata che non pretende di essere totalitaria. Praticamente sono antifondamentalista e Ricci fa parte di quegli autori che usano gli strumenti psicanalitici con intelligenza e correlandoli sempre con altri strumenti perchè il suo modo di affrontare l’esperienza culturale dell’uomo attinge all’antropologia, alla filosofia, alla storia delle religioni. 
Volevo sottolineare il fatto che in questo libro Ricci inizia come un drammaturgo. Parla delle dimissioni di Benedetto che vengono intese, da molta parte degli osservatori, come un atto di viltà. Questa lettura lo offende personalmente e pertanto intende reagire. In realtà, secondo Ricci, sono un atto di ammissione della non onnipotenza dell’uomo e lo sgretolamento di ogni potere. Qui inizia la sua riflessione originale, che poi anticipa l’ingresso in scena del nuovo papa, sulla rinuncia di un pontefice al principio di infallibilità in quanto uomo, e al principio di onnipotenza e quindi di distruzione di luoghi comuni ormai stratificati sul potere. 
Nel libro ci sono momenti, su questo tema, straordinariamente ricchi. Citerò semplicemente due momenti antropologici sulla riflessione che Ricci compie interpretando questo evento drammatico come momento critico della nostra civiltà. “Probabilmente (questo gesto) mostra qualcosa che molti ormai nella società ipermoderna fanno finta di non vedere: la vanità della potenza, il suo trionfo, l’illusione di supporre di poter governare il reale e di addomesticare la differenza (...). Penso non sia facile, nella posizione dell’infallibilità, riconoscere l’impotenza, dichiararla e, ulteriormente, assumerne la responsabilità fino a farsi soggetto all’impotenza”. Saltiamo a un altro passo: “Ormai i gadget della tecnologia, così divertenti, ci hanno invaso e stordito. Ecco la potenza dei mercati che invadono con oggetti, con cose che alla lettera (come indica l’etimo) sono proprio objectus, poste e gettate dinanzi a noi quale pasto per il consumo quotidiano. Ci balocchiamo. Le anime belle, che si dilettano passando di gadget in gadget, non si accorgono che l’enfasi tecnologica promette i migliori mutamenti antropologici. I quali, tra poco anzi pochissimo, saranno a disposizione di tutti, nuova merce tra le merci. Il godimento è assicurato, assegnato a ciascuno come un obbligo. Come una libertà necessariamente da consumare, ovvero come una libertà coatta. Ossimoro, quest’ultimo che pulsa nella lacerata divisione dell’uomo ipermoderno.” E ancora: “La libertà immaginata come onnipotenza incontra ben presto la caducità delle scelte, l’effimero gioco in cui il relativismo ripropone o ripete in tutte le sue varianti l’impossibilità di mantenere una fermezza etica”. Ecco che la scelta straordinaria, epocale, di Benedetto XVI viene interpretata da Ricci innanzi tutto come un evento drammatico, come qualcosa di sconvolgente, perchè noi siamo abituati a ricevere dagli uomini depositari della sapienza religiosa del mondo insegnamenti disciplinari o traduzioni di visioni. Ma qui c’è un gesto fisico, un gesto immediato, diretto, a cui seguirà un gesto inaspettato, l’arrivo di un papa completamente imprevedibile. E’ importante la complementarità drammatica. Ricci vede come l’uno sia l’altra faccia dell’altro: così come uno è talmente aderente al senso profondo di un rito da capire come questo rito nel momento in cui è reiterato, viene deritualizzato, così l’altro, quando giunge, ripropone in forme nuove il rito. 
E’ interessante anche il fatto che il libro pone questo evento, che avviene all’interno della Chiesa, come un modello che dovrebbe essere seguito nella società, ad esempio l’abitudine etica alle dimissioni, a non sentirsi onnipotenti, insostibuibili. L’idea delle dimissioni implica anche un concetto di ereditarietà diverso da quello tradizionale. Io non ho nessun potere da trasmettere a qualcuno. Il potere, il potere spirituale, nel senso buono, non il potere di cui parlava Pasolini, mi è dato in prestito, esattamente come la poesia. Il giorno dopo che Leopardi ha scritto L’infinito non può alzarsi e pretendere di riscrivere una poesia così. Magari non la farà mai più. Perchè la poesia gli è data in prestito e questo prestito può essere onorato solo con la dedizione, con l’applicazione, con il lavoro, come fa un prete, un poeta, un fabbro, un orefice o un panettiere. Con la differenza che nella poesia e nelle arti dello spirito qualcosa passa, viene in contatto con noi, e noi dobbiamo trasmetterlo, crearne forme, ma sapere che non è nostro. 
Concludo con questa metafora: l’opera, il capolavoro dei capolavori di Shakespeare, il capolavoro del teatro di tutti i tempi, accanto all’Amleto,  è la Tempesta. Il mago Prospero ha un potere praticamente assoluto, crea la tempesta, controlla tutto, incanta i suoi nemici animato da un desiderio che noi oggi diremo di vendetta ma che in realtà è di giustizia, dato quello che ha subìto, ma lo fa per ragioni di amore: per la figlia che si innamora del figlio del suo nemico e per altre ragioni. Comprende che, non solo deve perdonare il suo nemico ma che deve rinunciare ai suoi poteri magici. Così nel momento in cui ha capito la realtà dell’amore e della compassione, non può più considerarsi un mago eternamente. Quindi dopo avere compiuto i suoi miracoli, se ne va in pensione, spezza la bacchetta magica, la lancia nel fondo del mare dicendo: la magia abita nei misteri dell’abisso. In ciò si rivela un vero sapiente, un grande mago. Crea una grande riconciliazione. Secondo la mia interpretazione Ricci ha indicato in Benedetto un grande sapiente che ha compiuto questo gesto. Ma ciò non riguarda solo il mondo cattolico, è un esempio di comportamento in un mondo che ha bisogno di lezioni di rinunce e di rigenerazione di questo genere. (Trascrizione non rivista dall’autore).

Nessun commento:

Posta un commento